Dopo l’ennesimo post sui social che parlava con un certo entusiasmo di «Avvocata Woo», una delle ultime serie sudcoreane approdate su Netflix, ho deciso di cedere e di spararmi mezze puntate in soli due giorni. Non senza dolore.
Sì perché chi mi conosce bene sa anche del mio scetticismo ed estrema critica (vi garantisco, non prevenuta!) verso film e serie TV che parlano di disabilità e, nel caso sopra citato, di neurodivergenza.
Questo, sostanzialmente, dipende da due motivi: il primo è l’eccessiva «romanticizzazione» della disabilità, che non solo la rende assai distante dalla realtà ma, spesso, finisce con il caricaturarla, inscenando delle vere e proprie «macchiette»; il secondo riguarda il fatto che i personaggi disabili sono raramente interpretati da persone con disabilità (e qui, però, si apre un dibattito ampissimo sul diritto all’auto-rappresentazione e sul fatto che nessuno possa/debba sostituirsi a un membro di una minoranza/comunità se non ne fa parte, ma di questo parleremo un’altra volta con l’attenzione che merita).
Personalmente, penso che ci siano tre tipi di film e di serie TV tra quelle che parlano di disabilità: quelli che ne parlano in modo totalmente sbagliato (con pietismo, compassione, «inspiration porn» o eccessiva «romanticizzazione») e hanno inoltre una pessima trama, oppure sono proprio fatti tecnicamente male; quelli che ne parlano in modo sbagliato a livello concettuale ma hanno una trama piacevole, divertente e a tratti interessante (insomma, che rappresentano comunque un buon prodotto di intrattenimento, così godibile da non far minimamente pensare allo spettatore medio che quello che sta guardando non è in linea con quanto sostenuto dalla comunità di persone con disabilità); infine quelli fatti bene, ma bene davvero, che parlano in modo corretto di disabilità e hanno pure una storia che funziona, riuscendo a coinvolgere chiunque.
Nel primo caso ci inserisco film come Io prima di te, dove la disabilità viene mostrata in un contesto super privilegiato e quindi l’unica vera difficoltà presente è la non accettazione del protagonista della propria condizione; Corro da te e Detective per caso, nei quali la disabilità viene raccontata in modo frivolo e leggero, inteso come superficiale, come l’ironia che si cerca di fare per «sdrammatizzare» ma che funziona poco (forse, per coloro che amano il livello dei cine-panettoni).
Nel secondo caso, la lista si fa molto più lunga dato che, in questi film e in queste serie, si cerca di strizzare l’occhio alla pancia degli spettatori che spesso non hanno gli strumenti per essere critici sul tema: i famosi Forrest Gump, Wonder, Quasi amici, A Beautiful mind e Rain Man, il meno noto film La famiglia Bélier, e poi le serie Atypical e Special. Sebbene ciascuno di questi titoli tenda a scadere in alcuni luoghi comuni e stereotipi, romanzando eccessivamente le storie raccontate, mi rendo conto che sono fatti talmente bene (o perché emozionano tantissimo, come i primi cinque, o perché sanno divertire ma anche riflettere, non in modo banale, come gli ultimi tre) da avere un’enorme presa sul grande pubblico, e se questo può servire ad avvicinarlo e familiarizzare con la disabilità, seppur non sia quella “vera”, sono leggermente disposto (leggermente, eh!) a non demonizzare questo tipo di lavori.
Infine, per il terzo caso, suggerisco: la serie Sex education (il personaggio disabile è davvero str*nzo, e sottolineo per fortuna!), ma anche i film Il mio piede sinistro, Ogni tuo respiro, La teoria del tutto, The session e il documentario (che stra consiglio per farsi una cultura riguardo i primi movimenti attivisti della comunità disabile) Crip Camp. E poco altro.
Tranne che per la serie Sex education, appunto, si tratta di storie tutte esistite, non eccessivamente romanzate, che trasmettono un’idea realistica della disabilità, senza edulcorarla e senza eroificare i protagonisti rendendo tutto facile quando, la vita, facile non lo è per nulla se si vivono certe difficoltà.
Sia chiaro, non dico che vadano bene soltanto cose noiose dove si piange, ci si deprime o spaventa. Ma far credere che la routine di un disabile sia quasi tutta rose e fiori al punto da fargli pensare direttamente all’eutanasia solo perché non si può più permettere qualche lusso dei tanti ancora posseduti (penso a Io prima di te), o che l’unico vero problema sia la ricerca di un assistente domiciliare e che, una volta trovato, tutto fili piuttosto liscio nella propria villa senza barriere dove vivere da Re (penso a Quasi amici), è completamente fuorviante e rischia di offendere chi, nelle “stesse” condizioni, ha tutt’altri pensieri quotidiani e si potrebbe sentire sminuito.
Questa banalizzazione avviene ancor di più, a parer mio, quando si parla di disabilità mentale o neurodivergenza (che non è una disabilità). Credo infatti che anche la tanto citata serie Avvocata Woosi possa collocare nella seconda lista: ammetto, i casi legali affrontati sono abbastanza originali, ci sono tanti spunti interessanti e non manca l’ironia, con quell’allegria molto “kawaii” a fare da sottofondo tipica del mondo orientale. La protagonista, però, risulta quasi odiosa da quanto viene resa una «macchietta» piena di stereotipi sull’autismosuper amplificati, come il suo ripetere alcune frasi, evitare interazioni sociali, fissarsi su dettagli precisi o avere comportamenti evidentemente strani (senza fare troppi spoiler, vi dico solo che per riuscire a passare oltre le porte girevoli deve fingere di ballare un valzer per coordinare i passi).
Ecco, io credo che la giusta narrazione al cinema la avremo quando i personaggi con disabilità di un film, oltre ad essere interpretati da persone realmente disabili, saranno umanamente cattivi e antipatici, mostreranno le proprie sincere debolezze e fragilità e si scontreranno con reali e quotidiane barriere architettoniche, sociali e culturali. Magari riuscendo a superare tutto questo, con più o meno sacrifici, ma preservando comunque l’autenticità della vita in modo credibile. Che poi, si è mai visto un film dove una persona autistica fa l’idraulico o la giornalaia, giusto per dire due lavori a caso? No, e infatti anche stavolta la giovane «Woo» non poteva che essere un’avvocata con lode, enfatizzando l’incredibile dote mnemonica, fondamentale per risolvere casi, alla quale sono associate le persone autistiche. Un altissimo funzionamento che rende tutto più semplice, troppo semplice, da vedere e da accettare, ma che non è di tutte e di tutti, e dobbiamo ricordarlo, con il telecomando in mano, scegliendo bene.